Art. 231. I Governi Alleati e Associati dichiarano e la Germania riconosce, che la Germania e i suoi alleati sono responsabili, per esserne la causa, di tutte le perdite e di tutti i danni subiti dai Governi Alleati e Associati e dai loro cittadini in conseguenza della guerra che è stata loro imposta dall’aggressione della Germania e dei suoi alleati.

[Anchieri Ettore, La diplomazia contemporanea. Raccolta di documenti diplomatici (1815-1956), Cedam, Padova, 1959, pp.102-104]

Quando i rappresentanti diplomatici degli «Stati Uniti d’America, l’Impero britannico, la Francia, l’Italia e il Giappone, […] le principali Potenze Alleate ed Associate, / Il Belgio, la Bolivia, il Brasile, la Cina, Cuba, Equador, Haiti, Hegiaz, / L’Honduras, la Liberia, il Nicaragua, il Panama, Perù, Polonia, Portogallo, Romania, lo Stato serbo-croato-sloveno, il Siam, la Cecoslovacchia e l’Uruguai [sic]» prendono posto «da una parte» della sala degli specchi della reggia di Versailles per la firma degli accordi di pace, il 28 giugno 1919, a sedere «dall’altra parte» di quella stessa sala, si trova sola «la Germania».

Non serve essere esperti in teoria della comunicazione né conoscere i principi del funzionamento spaziale dei rapporti di forza per comprendere che, per la sua collocazione nel testo e al tavolo dei trattati conclusivi della guerra, la Germania è, in realtà, un imputato sottoposto al verdetto di una unanime giuria.

In effetti, basta leggere gli articoli dal 227 al 233 per comprendere che i vecchi termini e consolidate pratiche di risoluzione dei conflitti sono tradotti secondo un nuovo vocabolario, quello del diritto internazionale uscito dalla Prima grande guerra mondiale e, per questo, per la prima volta redatto dalla pesante mano americana del Presidente Woodrow Wilson, sotto l’egida della neonata – evidentemente con i peggiori auspici – Società delle Nazioni.

Con gli avversari secolari, Gran Bretagna e Francia, e quello più recente, gli Stati Uniti, la giustizia tedesca parla le lingue dei vincitori, inglese e francese, che legittimano la punizione da infliggere alla Germania con l’imperativo morale: «per il mantenimento di una pace duratura».
Il testo, infatti, è scandito in Sezioni che descrivono Sanzioni, Riparazioni e Garanzie di esecuzione, nell’assenza totale della voce dei vinti: la Germania, prima di tutto, l’Austria disgregata e, non ultima, la Turchia. Di contro, sono i capi d’accusa a dare il tono chiaro della voce dei vincitori, giudici e vittime politiche dell’aggressione e, per la prima volta nella storia, rappresentanti giuridici dei «loro cittadini», vittime civili della barbara violazione tedesca delle «leggi dell’umanità».

Le Potenze Associate si fanno così anche garanti ed esecutori della condanna già stabilita alle 11 dell’11 novembre 1918 con la firma dell’armistizio e della resa inappellabile «senza condizioni» della Germania. Inappellabile perché, come si deduce dal dibattito coevo e contemporaneo intorno alle clausole di quel testo, non ci sarà modo di negoziare o modificare quanto ratificato in quegli articoli. Da una parte, con le Sanzioni (art.227-228), la Germania perde un settimo del suo territorio e un decimo della popolazione; i possedimenti coloniali e molti giacimenti minerari e carboniferi, tra cui la regione della Saar che passa di proprietà «con diritto esclusivo di sfruttamento» alla Francia. Quello che ormai è un ex impero viene poi mutilato del suo esercito: con abolizione della leva obbligatoria; riduzione permanente a centomila unità; divieto di possedere aviazione e marina militare e la smobilitazione delle forze armate. Una sanzione, cioè, propagandata dalla Gran Bretagna come tentativo di debellare il militarismo prussiano, che di fatto si traduce in una nuova provocazione alla umiliata e non sopita civiltà della guerra (Kulturkrieg).

Dall’altra, con le Riparazioni (artt.232-233), alla Germania viene imposto il pagamento integrale dei danni, stimato nella cifra esorbitante di 132 miliardi di marchi oro, una richiesta fatale per i futuri assetti politici tedeschi e per l’equilibrio geopolitico internazionale.

Sembra verificarsi ancora nella moderna Europa sfregiata dal conflitto ciò che lo storico francese François Guizot affermava a propisto dello spartiacque culturale tra XVIII e XIX secolo: nella politica estera che si manifestano «le passioni grossolane e ignoranti dei principi e dei popoli.» Essa è «il teatro favorito della violenza brutale» e «dell’egoismo imprevidente» dei governi, «così indifferenti al bene e al male, così leggeri, così perversi, così chimerici». E in nessun altro campo i popoli sono «così ignoranti dei loro veri interessi, così pronti a non essere che degli strumenti e degli ingannati.»

Fatali e assolutamente ciechi di fronte agli scenari futuri già evidenti, sordi agli appelli di intellettuali e diplomatici – pacifisti, socialisti o semplicemente lungimiranti –,  i governi delle Potenze Associate si assestano sulla contingenza dei numeri redditizi degli articoli sanzionatori. Nella Germania post-bellica, i più inquieti e sotterranei sentimenti di vendetta e le più abiette strategie di riaffermazione nazionale iniziano a nutrirsi della depressione economica e sociale.

Sono, dunque, le cifre di questa manciata di norme che scandiscono la cronistoria del passaggio dal lungo Ottocento delle guerre napoleoniche unificatrici, delle rivendicazioni territoriali poi trasposte nella «guerra senza sangue» dei mercati e dei capitali al Novecento breve della sanguinosa «guerra civile europea», delle «vittorie mutilate», della «pugnalata alla schiena». Passaggio che segna un ritorno più aggressivo al mai sopito esprit de conquête territoriale, presto incarnato dall’attrazione fatale delle retoriche fasciste.

Insomma, è in quel trattato che risiede la paternità di un imperativo morale per la pace internazionale, la cui natura controversa ricade, ancora oggi, sulla carta geopolitica globale coma una tragica colpa senza apparente soluzione di continuità.

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