Tra le varie “attribuzioni” che le sono state assegnate, la Prima guerra mondiale va osservata anche nella sua dimensione di conflitto “infinito”. Ovvero di “guerra senza fine” sotto il profilo del continuum spazial-temporale (vastità dei fronti e teatri di battaglia e lunghezza complessiva del periodo dello scontro, e di molte singole azioni e campagne belliche come la “guerra di trincea).

Come pure della molteplicità (che, appunto, non finiscono) di ambiti implicati e “sussunti” nell’impegno bellico: come quello della scienza, che per tanto tempo, sull’onda dell’internazionalismo positivistico, venne considerata una sorta di spazio libero e cosmopolita e, allo scoppiare del conflitto, vide l’accavallarsi di crisi di coscienza degli studiosi oppure, al contrario, la loro entusiastica adesione alle “ragioni della nazione” e la loro mobilitazione totale in una “battaglia di civiltà” che vide le armi del progresso al servizio di quelle di distruzione dando origine a una guerra ipertecnologica (lo racconta bene il matematico dell’Università dell’Insubria e dell’Università Bocconi Angelo Guerraggio nel suo libro La scienza in trincea, Raffaello Cortina, 2015).

Guerra senza fine lo fu nel coinvolgimento di settori e soggetti della società che dei conflitti erano risultati sempre vittime, e si ritrovarono invece a doverne essere attori, a causa della mobilitazione totale e, appunto, “infinita”, come le donne e i bambini. Questi ultimi, in un intreccio singolare e mai davvero implementato in precedenza di dispositivi pedagogici e propagandistici, vennero fatti oggetto di un processo di mobilitazione dei minori e di metodico e coattivo “intervento a gamba tesa” nel loro immaginario e nella loro sensibilità che avrebbe conosciuto i suoi vertici sotto i regimi totalitari degli anni Venti e Trenta del Novecento che del nazionalismo e delle sue tecniche di manipolazione del consenso furono appunto gli orribili e mostruosi “figli legittimi”. Nel caso dell’Italia, i programmi e le metodologie didattiche vennero orientati e riposizionati nella direzione del patriottismo, e venne sviluppato il culto dell’eroismo e del martirio a favore della nazione anche mediante la pratica della corrispondenza tra gli alunni e le madri (come quella dei fratelli Filzi, gli irredentisti istriani) o le vedove (come quella di Cesare Battisti) dei caduti e giustiziati celebri. La letteratura per l’infanzia, ispirandosi anche allo stile dei libri di Edmondo De Amicis, si mise l’elmetto e si popolò di una galleria di figure idealtipiche di piccoli eroi (secondo lo schema degli exempla), che andavano dal modello eccezionalistico del giovanissimo che scappava di casa per unirsi al fronte ai soldati combattenti fino a paradigmi più domestici e “normali”: quello del figlio grato e devoto al padre lontano da casa che difendeva la patria dallo straniero, quello del figlio responsabile e ubbidiente che non si doleva o lagnava delle privazioni imposte dallo stato di guerra alle condizioni di vita quotidiana, e quello dell’orfano che coltivava con dignità e coraggio la memoria del sacrificio del genitore caduto in battaglia. La letteratura educativa popolare e, al suo interno, il filone specificamente dedicato agli under 14, rappresentavano infatti un ambito importante dell’editoria italiana del XIX secolo. La mobilitazione ideologica infantile non avvenne dunque per l’esclusivo tramite della scuola e delle istituzioni-agenzie educative pubbliche, ma anche attraverso l’industria culturale privata dell’epoca e la stampa (come il Giornalino della Domenica di Luigi Bertelli in arte Vamba, uscito fino al 1911). Punta di diamante (e di lancia) della propaganda bellica rivolta alle generazioni di giovanissimi fu il Corriere dei Piccoli (il celebre Corrierino) fondato nel 1908 e diretto da Silvio Spaventa Filippi, che si caratterizzò da subito per una spiccata matrice pedagogico-patriottica, dal culto delle imprese risorgimentali al supporto alla campagna di Libia e alle avventure coloniali. Da cui l’impegno anche nell’«ultima campagna del Risorgimento», con i fumetti embedded, a partire dal fortunato e amatissimo Schizzo (partorito dall’illustratore Attilio Mussino), intrepido sognatore, e artefice – nel suo universo onirico – di imprese straordinarie, che vinceva grazie a esseri fantastici schierati a supporto delle potenze dell’Intesa, e aveva il compito – insieme agli altri personaggi del Corrierino – di “scortare” i piccoli lettori all’interno dei nuovi complicati scenari della Prima guerra mondiale. Il tutto sempre all’insegna di un tono ilare e giocoso per familiarizzare i bambini a quella (tragica) “cosa da grandi” che era la guerra, in un’ottica di rassicurazione, per loro e per le famiglie, e di non destabilizzazione, così da acquisirne la “rassegnazione” e l’accettazione nel corso della durata del conflitto, facendone un elemento di sostegno psicologico per i padri in battaglia (e, dunque, un anello della lunghissima catena e filiera della guerra psicologica, mai tanto importante quanto nel corso del Primo conflitto mondiale).

Guerra senza fine perché, come ha scritto lo storico tedesco Oliver Janz, «[…] alla lunga le immagini e i concetti plasmati dalla propaganda durante la guerra, siano essi la visione di una comunità del popolo o la promessa di democrazia universale, si sono impressi nella mente delle persone» (O. Janz, 1914-1918. La Grande Guerra, Einaudi, 2014). E proprio alle tecnologie propagandistiche messe a punto dai nazionalisti può essere imputata la creazione mitopoietica dell’“autorità carismatica” mediante i messaggi, i mezzi di comunicazione di massa e le “pratiche di vita quotidiana” dei dittatori alla guida dei regimi totalitari; in special modo nella disastrata Repubblica di Weimar, dove la conversione di un «apparentemente insignificante» imbianchino-pittore fallito austriaco in un «messia tedesco» si rivelò profondamente debitrice di un apparato propagandistico che affondava le sue radici nel primo conflitto – e lo evidenziano le ricerche condotte dallo storico Ludolf Herbst nel libro Il carisma di Hitler, Feltrinelli, 2011). La propaganda bellica seppe appropriarsi degli stilemi, dei frames e della capacità di sfornare slogan della pubblicità; e per tornare in Italia si può pensare al ruolo svolto in materia dal “vate” Gabriele D’Annunzio, che “vendette” in termini eminentemente pubblicitari l’impresa di Fiume e che, non per nulla, faceva il copy, per così dire, e il creatore di claim per alcune grandi aziende (dietro lauto compenso).

Guerra senza fine perché la smobilitazione all’indomani della fine del conflitto non riuscì davvero (nonostante vari sforzi dei governi in tal senso, anche in Italia), facendo del nazionalismo l’incubatore e l’“uovo di drago” del totalitarismo nazifascista.

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