Se la “tecnica” divenne uno degli oggetti di riflessione più rilevanti per i filosofi del Novecento europeo (basti pensare al pensiero di Martin Heidegger), una delle motivazioni di fondo coincise proprio con il suo impressionante dispiegarsi nel corso del Primo conflitto mondiale. La mostruosa carneficina (tragicamente, e precisamente, nel termine quantitativo) che si produsse nel quinquennio 1914-’18 è in buona parte da imputare alla sempre maggiore e più letale efficacia distruttiva delle armi e “testate” sui vari fronti e al processo di industrializzazione della guerra.

Dunque “guerra totale” anche sotto questo profilo, con l’esponenziale potenza di fuoco scaturita dall’impiegomassiccio delle armi chimiche, dall’artiglieria pesante e dalle mitragliatrici a lunga gittata, dai lanciabombe, dai sommergibili (la “guerra sottomarina”, articolazione appunto di un conflitto estremamente tecnologico e onnipervasivo), e l’escalation di atrocità perpetrate ai danni delle popolazioni civili.

Questa morte seriale e di massa inflitta dalle tecnologie belliche a distanze sempre maggiori, la guerra di trincea e di posizione, lo spazio vuoto (la no man’s land) che si frapponeva tra le armate appostate dietro le rispettive fosse e i trinceramenti generava una logica di disumanizzazione e spersonalizzazione del conflitto, che ritornava, come frame descrittivo e di racconto, negli epistolari degli ufficiali, dei soldati e negli scritti di chi per professione doveva narrare la guerra e celebrare le gesta del proprio esercito (a partire dai letterati combattenti e dai corrispondenti dei media). Il risultato è una rappresentazione impersonale della guerra che serve – per ragioni psicologiche, e propagandistiche – a “ridurre” il livello della violenza. Esattamente la narrazione di questo “oggetto”, che si colloca al centro della scena della guerra, rappresenta il fulcro dello storytelling alimentato dai diversi filoni culturali e dalle istituzioni che alimentavano e sorreggevano lo spirito bellicista nelle varie nazioni, riproponendosi di occultare l’omologazione e di rigettare l’anonimato determinati dalla mobilitazione integrale. In Italia, nella fase soprattutto iniziale, si impose un approccio estetizzante alla violenza e alla guerra, in un mix di appello alla gioventù e alla palingenesi, di rigenerazione intrepida e di occasione per scrollarsi di dosso il vecchio mondo, di vitalismo e agonismo, conditi di un atteggiamento ludico e intriso di imperialismo (perché, come noto, è proprio la campagna espansionista in Libia a offrire le prove generali per l’arrembante nazionalismo italiano). Campioni di questa concezione della “guerra estetica” furono innanzitutto i futuristi capitanati da Filippo Tommaso Marinetti, la cui eccitazione, frenesia e isterismo tecnologici, dal punto di vista pittorico, peraltro non possedevano – come ha sottolineato Antonio Gibelli – gli strumenti per raffigurare la decomposizione e lacerazione della materia (la carne e il sangue) indotta dalla guerra. Ed “estetica della politica (che si confrontava deliberatamente con la condizione di massificazione della politica) era quella della retorica, estremamente innovativa e moderna, di Gabriele D’Annunzio, la cui esaltazione del bellicismo e dell’interventismo si incentrava sul concept della guerra quale unico contesto in cui l’individualità poteva affermarsi e l’eccezionalità trasmutarsi in normalità: repertorio comunicativamente modernissimo che esprimeva mediante una serie di performance oratorie nei comizi e negli incontri di piazza che ne fecero un antesignano delle star mediatiche. In un orizzonte culturale anticrociano, a metà tra il regolamento di conti generazionale e la voglia irrefrenabile e scomposta di intellettualità militante di una certa piccola borghesia si collocava l’idea al tempo stesso edonistica e “terapeutica” della guerra-farmaco purificatrice di Giovanni Papini (un ricco e famoso campionario delle “visioni” della guerra dell’intellighentzia italiana primo-novecentesca si trova ne Il mito della Grande Guerra di Mario Isnenghi, il Mulino).

La propaganda ufficiale italiana prima della disfatta di Caporetto elabora un format narrativo specifico e peculiare, di cui rappresentano altrettanti manifesti numerose copertine de La Domenica del Corriere e di altre riviste illustrate destinate al pubblico borghese: ovvero, permeato di sensibilità romantica e di reminiscenze scolastiche, lo stile eroico e il “duello cavalleresco” anziché il massacro anonimo e “industrializzato”, la morte individuale contrapposta alla sua spersonalizzazione di massa. È ascrivibile allo stesso frame volto sempre a esorcizzare e depotenziare questa morte di massa e per così “fordista” anche un altro motivo narrativo, che ha segnato l’iconografia, rappresentando una ulteriore peculiarità della propaganda italiana: la raffigurazione “vacanziera” del fronte alpino, che attingeva elementi visivi dall’incipiente industria turistica (riservata ai ceti borghesi) e proponeva la bellezza dei paesaggi e panorami montani. Nell’ambito di questa chiave propagandistica, le azioni dei reparti degli alpini assumevano i tratti e le movenze nei giornali illustrati dell’equivalente di altrettante “scampagnate”. Fino a che la disfatta di Caporetto dell’ottobre 1917 portò a una riformulazione delle strategie di propaganda, e a una loro intensificazione da parte del preoccupatissimo Comando Supremo militare, con un’ulteriore stretta sulla stampa e l’istituzione, all’inizio dell’anno successivo, del cosiddetto “servizio P” nei vari livelli e articolazioni organizzative dell’esercito (che si avvalse dell’opera di numerosi intellettuali, da Giuseppe Prezzolini a Massimo Bontempelli, da Alfredo Rocco a Gioacchino Volpe e Piero Calamandrei).

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