Quando i gas velenosi non basteranno più,un uomo fatto come tutti gli altri,nel segreto di una stanza di questo mondo,inventerà un esplosivo incomparabile,in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli.[…]
Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli privata di parassiti e malattie.
Italo Svevo, La coscienza di Zeno (1919)
Nella regione belga delle Fiandre, la guerra, nella primavera del 1915, è già una sanguinosa faccenda di stallo e carneficina quotidiana.
Dall’ottobre del ’14, infatti, come conseguenza dell’immobilità degli eserciti sui fronti opposti dopo la lunga e insolvente battaglia della Marna, la «corsa al mare» per la conquista del continente europeo dei piani tedeschi, si è interrata nei circa 720 chilometri di trincee del fronte occidentale. Sul punto mediano di questa linea, sta il Belgio, luogo di sperimentazione e fallimento di vecchie strategie militari e, proprio per questo, di applicazione delle moderne tecniche della guerra moderna, tecnologica e industriale «dei materiali», e di quella «immateriale» delle armi chimiche.
Quando il 22 aprile del 1915 – e da allora di continuo su tutti fronti opposti della guerra – nella seconda battaglia svoltasi nei pressi della cittadina medievale di Ypres, l’esercito tedesco lancia sulle truppe canadesi mobilitate dalla Gran Bretagna le prime bombe a gas, la Grande Guerra diventa nella pratica un conflitto totale: prima di tutto, per l’implicazione mondiale delle forze in campo, poi, per lo sconfinamento aereo dello spazio bellico.
Mondiale, ovviamente, per il coinvolgimento progressivo di Paesi e truppe provenienti da tutti gli angoli della terra. Come dominio del Commonwealth britannico, il Canada è chiamato immediatamente a mobilitarsi, inviando oltre Oceano truppe di supporto a quelle schierate dalla madrepatria in difesa del territorio belga aggredito e occupato dalla Germania, contravvenutacosì al codice di guerra rispetto al diritto alla neutralità.
Aereo, invece, per due ordini di ragioni che sono anche tra i criteri che concorrono a faredella guerra del ’14-’18, la prima grande guerra tecnologica, per mobilitazione di risorse, strumenti e materiali provenienti dalle più moderne fabbricheper la produzione industriale e dai laboratori più avanzati nella ricerca scientifica del tempo di pace. Innanzitutto, con la conquista del cielo, si ha lo sconfinamento del conflitto oltre i limiti terreni della battaglia campale, e oltre quelli marittimi già allargati dall’uso di sommergibili nella prosecuzione del conflitto nello spazio inesplorato sottomarino. La possibilità di attaccareil nemico dall’alto, bombardandoobiettivi diversamente irraggiungibilie impedendo al nemico ogni fuga, possibilità di ripresa e di salvezza, dà per la prima volta alla strategia militare un potenziale distruttivototale, coinvolgendo nella strategia di logoramento aree e territori non strettamente militari ma essenziali per l’approvvigionamento e il sostegno delle retrovie.
Aereo, però,anche per una seconda ragione che proprio da Ypres prende il nome, e che assume in quella primavera del ’15 una dimensione centrale per tutta la storia del XX secolo: qui per la prima volta avanza invisibilela guerra «atmosferica»,aerea perché propriol’ariadiventa il mezzo di annientamento, arma di eliminazione industriale e chimica del «macello umano specializzato» su larga scala.
Così, circondata da reticolati e invasa dalla prima letale nube tossica, asfissiante e vescicante, la piccola cittadina belga è, in un senso tanto reale quanto paradigmatico, il primo laboratorio a cielo aperto della guerra moderna. A Ypres il gas mostarda – per il colore ocra e l’odore asfissiante di senape nella miscela con le polveri esplosive e con le condizioni metereologiche – diventa iprite; l’aggressione militare si fa trattamento tecnico-scientifico di somministrazione chimica della morte; e la sconfitta del nemico assume il carattere dell’annientamento totale di persone e cose, e dello spazio che le accoglie. Ypres è, nella genealogia dello sterminio di massa tecnologico, la prima place à gaz, il primo campo di applicazione della morte anonima dei grandi numeri: prima di Auschwitz, prima di Hiroshima e Nagasaki.
Da questa prima sperimentazione perpetrata sul tempo lungo dei quattro anni di guerra nelle trincee chilometriche dei diversi fronti – già i francesi si erano esercitati in mancanza di munizioni con gas tossici nel ’14 e, ancora, nel ’17 anche gli italiani schierati a Caporetto saranno bersaglio impreparato di attacchi chimici –prende inizio quell’addestramento massificato all’organizzazione del massacro tragicamente noto nella storia dell’orrore bellico contemporaneo comesoluzione finale.
Come suggerisce, infatti, la corrente di studi che va sotto il nomedi HolocaustStudies, e evitando inutili ricostruzioni teleologiche della storia recente come di un’immaginaria consequenzialità lineare di eventi“analoghi” originari, gli episodi di Ypres – compresi i bombardamenti che l’hanno rasa al suolo negli anni dal ’15 al ‘18 – rappresentano un punto di non ritorno del sistema di aggressione armata.
La stretta collaborazione fra sperimentazione e produzione industriale del tempo di pace in contesti di guerra, l’uso dei gas asfissianti contro soldati inermi, la volontà di perfezionare le «armi di massa» penetrando e annientando i sistemi di protezione militari esistenti (reticolati, maschere antigas, terapie mediche di disintossicazione, e i confini stessi del campo di battaglia),insieme alla vanificazione di ogni Convenzione internazionale contro l’uso della violenza «disumana»,si impongono quali fattori-limite nella conduzione della prima «guerra dei chimici» tra forze belligeranti legittime e eguali.
A Ypres, cioè, per la prima volta la morte arriva senza distruggere i corpi, senza dilaniare come invece fanno quotidianamente le tonnellate di esplosivi e proiettili di artiglieria pesante, senza insanguinare la terra, senza mutilare e deformare, via via che la scienza perfeziona l’azione immediata e letale degli agenti chimici. I soldati restano seduti al loro posto, muoiono appoggiati al loro fucile, immobilizzati per sempre nella posizione di attesa dell’attacco nemico.E l’attacco effettivamente arriva ma invisibile, in una nube impercettibile in mezzo ai fumi delle esplosioni, come una nebbia che imbianca l’orrore della guerra armata, delle lacerazioni strazianti, delle ferite mutilanti.
Poche tracce dell’aggressione e, quindi, della responsabilità dell’aggressore restano sui corpi, oltre le vesciche nascoste dalla divisa, non resta che il velo di una polvere sottile e infida, caduta sulle trincee al posto delle munizioni degli obici e dei bombardamenti aerei.
È una polvere bianca che fa di Ypres e degli altri luoghi reali e paradigmatici della Grande Guerra chimica,un terreno archeologico della morte e dell’assassinio contemporanei, un atlante storico di moderne Pompei, o di rudimentali Auschwitz e Hiroshima, come già si constata nella pubblicistica coeva: «Cosa resti ancora di Ypres, – ci si chiede dalle pagine de «L’Illustrazione italiana» a pochi giorni dall’ingresso in guerra dell’Italia – nessuno saprebbe dirlo, essendo ivi gli attacchi e i controattacchi [sic] incessanti, ed essendo Ypres niente altro, oramai, che rovine, rovine, rovine.» [cfr.ivi, Anno XLII – N.21, 23 Maggio 1915, p.428].
L’esplorazione di questi luoghi finisce per essere, ad oggi, empatica constatazione che il mondo, a partire dal 1914, sia andato trasformandosi in un campo esteso di rovine e che la storiografia del XX secolo, come afferma lo storico Enzo Traverso, non possa essere altro che una disciplina malinconica, un catalogo illustrato delle stagioni di questa lunga «era di catastrofi» che a Ypres è solo alla sua primavera.