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Come in tutte le società moderne la società italiana è caratterizzata da tipi diversi di famiglia, distinguibili per ceto, per ruolo, per professione per aree geografiche. Tutte queste diverse configurazioni rinviano a un modello che si trasforma tra Ottocento e Novecento. La famiglia a cui si fa riferimento in questo percorso è soprattutto definita da un ruolo che essa svolge o che ad essa è affidato nel pensiero economico e sociale italiano risorgimentale e dell’Italia liberale. La famiglia dunque come unità produttiva, cui è sottintesa un’identità morale, una fisionomia e un ruolo economici, un’idea di formazione professionale. In breve un’istituzione che è anche un’unità produttiva, economicamente parlando, e riproduttiva di valori, socialmente parlando. Ovvero’unità che è produttiva che spesso coincide con una forma di azienda o che è pensata come parte essenziale di un’azienda e a cui si affida anche la funzione di conservare e mantenere il carattere culturale dell’”Italianità”. E’ questo concetto – “italianità” – che caratterizza una parte consistente e significativa della riflessione economica italiana che è al centro di questo percorso.


La fisionomia del pensiero economico italiano

All’inizio del processo Risorgimentale sta un doppio percorso riflessivo: da una parte l’organizzazione dell’economia e in particolare la conoscenza del territorio; dall’altra dei modi e di pensare la costruzione del mercato nazionale. I due temi si intrecciano e hanno entrambi un’origine nel pensiero e nella riflessione degli economisti dell’Italia delle Riforme.

Il dibattito economico in una prima fase dunque riguarda l’idea dell’equilibrio, ma anche l’idea di formazione professionale, cui, per esempio è sensibile il gruppo dei “conciliatori” milanesi che trova la sua sistematizzazione con Giuseppe Pecchio, sia nei suoi interventi sul periodico milanese tra il 1818 e il 1819 sia nella rilettura complessiva che Pecchio propone nel suo libro – Storia dell’economia pubblica in Italia – alla fine degli anni ’20 nel suo esilio londinese quando riprende in mano la collezione degli scrittori classici di economia di Pietro Custodi e indica il carattere proprio della “scuola economica italiana”: il fatto che la tradizione economica in Italia, a differenza di quanto negli stessi anni avviene in Inghilterra, non si istituisce come perseguimento dell’ “utile” e del “bene economico” identificato con la ricchezza, ma ruota intorno al binomio amministrazione/buon governo.


Biblioteca dell’economista

Francesco Ferrara dirige le prime due serie della “Biblioteca dell’economista” (edite rispettivamente tra il 1850 e il 1855 e tra il 1859 e il 1867) che costituiscono dopo la Collezione degli “Scrittori classici italiani di economia politica” edita da Pietro Custodi tra il 1803 e il 1816) il primo tentativo organico di diffondere una cultura economica europea nel mondo culturale e politico italiano. Le due serie hanno caratteristiche diverse. La prima dedicata ai “Trattati generali” (ovvero alle opere complessive e ai manuali) presenta al lettore italiano per la prima volta in un’unica serie i testi generali di teoria economica e di economia politica moderna a partire dai fisiocratici (con cui si apre il primo volume di questa serie) per proseguire poi con, tra gli altri, Adam Smith, David Ricardo, Jean-Baptiste Say o Henry Charles Carey, nonché i trattati economici dei riformatori italiani del XVIII secolo (Antonio Genovesi, Pietro Verri, Cesare Beccaria Gaetano Filangieri, Giovani Maria Ortes). La seconda serie, che qui viene proposta integralmente, è invece dedicata ai “Trattati speciali”, ovvero alle monografie su singoli aspetti dell’economia politica (per esempio: rendita terriera; agricoltura; industria manifatturiera; dogane; imposte; scambi commerciali; teoria della popolazione) ed è rilevante non tanto sul piano delle conoscenze economiche, quanto su quello delle politiche e delle pratiche economiche che maturano nell’Italia liberale.


Giuseppe Pecchio

Milano 1785 – Brighton 1836

Economista e pubblicista. Si laureò in Legge a Pavia e nel 1810 divenne assistente al Consiglio di Stato del Regno d’Italia per le Finanze e l’Interno. Tale esperienza venne troncata dall’occupazione austriaca, avvenuta nel 1814. Collaborò al giornale Il Conciliatore e nel 1817 scrisse il Saggio storico sulla amministrazione finanziera dell’ex-Regno d’Italia dal 1802 al 1814 che venne censurato dalle autorità austriache perché fortemente critico nei riguardi del governo di Vienna, accusato di aver disperso il patrimonio costruito pazientemente durante il periodo napoleonico e di avere affossato le iniziative volte al miglioramento delle condizioni economiche del Lombardo-Veneto. Nel 1821 prese contatti con gli elementi liberali piemontesi per concertare la liberazione della Lombardia dal dominio austriaco. Il fallimento del moto lo costrinse a rifugiarsi all’estero, prima in Francia e poi in Inghilterra, dove si dedicò all’insegnamento. Nel 1827 pubblicò le sue osservazioni sulla Gran Bretagna, trasformata dalla rivoluzione industriale ed alle prese con una crisi commerciale, nel saggio L’anno mille ottocento ventisei in Inghilterra.

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