“La vittoria si cercava nelle armi, solo nelle armi” (V. Giuffrida).
Se il governo italiano si mostrò sostanzialmente pronto ad affrontare il problema della produzione di guerra, mettendo in moto in tempi relativamente brevi e con risultati tutto sommato soddisfacenti la macchina della mobilitazione industriale, non lo stesso si può dire per il problema degli approvvigionamenti.
“Si comprese tardi e male che il problema dell’approvvigionamento era fondamentale per la resistenza e per la vittoria” (V. Giuffrida, G. Pietra, Provital. Approvvigionamenti alimentari d’Italia durante la grande guerra 1914-1918, Padova, 1936): questo il giudizio che negli anni Trenta avrebbe dato della politica degli approvvigionamenti Vincenzo Giuffrida, responsabile del Commissariato agli Approvvigionamenti e Consumi fino al 1917.
La situazione alimentare in Italia apparve preoccupante fin dall’autunno del 1914, e di fatto da quel momento il governo non sarebbe più riuscito a sanare i ritardi accumulati, ed in gran parte riconducibili anche alle errate valutazioni – in Italia come negli altri paesi belligeranti – sulla durata della guerra.
Fu dapprima la chiusura dei Dardanelli a privare i mercati europei del grano proveniente dal Mar Nero. Si calcola che al mercato europeo vennero a mancare, per il solo effetto immediato della dichiarazione di guerra, circa 20 milioni di quintali tra grano e farina. Mancanza aggravata dalla ridotta produzione interna e dall’accresciuto consumo per gli eserciti. In Italia, già nel 1914 la produzione risultò ridotta rispetto alla media del quinquennio precedente (46.115 migliaia di quintali contro i 49.896 del 1909-13).
Oltre che alla ridotta importazione, la carenza di grano era da imputarsi ad una riduzione (calcolata nella misura del 10%) della superficie coltivata a grano, per una serie di ragioni che andavano dalle avverse condizioni atmosferiche, alla mancanza di manodopera sottratta dal richiamo alle armi, alle requisizioni di animali e mezzi agricoli.
L’effetto di questa improvvisa riduzione nella disponibilità cerealicola fu un aumento dei prezzi del grano che nell’inverno del 1914-15 arrivò a toccare il 60%. A ciò si aggiunsero da subito le difficoltà di trasporto all’interno del territorio nazionale, con il rischio di una distribuzione diseguale dei disagi accusati dalla popolazione.
Alla luce di tutto questo, non è certo un caso che proprio la questione granaria, all’interno del più generale problema alimentare, fosse la prima ad essere interessata da alcune misure governative. Nel gennaio del 1915 veniva creato l’Ufficio Temporaneo Approvvigionamento Grano (UTAG), posto sotto la guida di Giuffrida, che si trovò a gestire il problema granario nelle due emergenze dell’approvvigionamento e della distribuzione.
Le iniziali difficoltà si aggravarono ovviamente con l’ingresso in guerra del paese nel maggio del 1915. E l’emergenza granaria si estese progressivamente a tutta una serie di altri beni di prima necessità. Si poneva con urgenza il problema di “nutrire il paese mobilitato”. Dopo le primissime misure d’emergenza, almeno fino all’estate del 1916 in realtà i provvedimenti governativi riguardanti il problema alimentare furono relativamente pochi, e questo contribuì ad accumulare quel ritardo che sarebbe risultato poi difficilmente colmabile.
Tra i pochi, si possono ricordare:
il R.D.L. 22 aprile 1915 n. 497 che vietava la macellazione di vitelli di peso inferiore ai 200kg;
il D.L. 16 febbraio 1916 n. 121 che autorizzava l’importazione a condizioni di favore dello zucchero estero e ordinava il censimento di quello nazionale;
il D.L. 11 marzo 1916 n. 247 che autorizzava la requisizione dei risi, rendeva obbligatori i prezzi di requisizione e autorizzava i prefetti a fissare i prezzi massimi di vendita delle farine e delle paste;
il D.L. 12 marzo 1916 n. 272 che fissava i prezzi dello zucchero;
il D.L. 22 aprile 1916 n. 472 che autorizzava il Maic, di concerto con il Ministero dell’Interno, a fissare i prezzi massimi di vendita delle merci di largo consumo.
Poca cosa, paragonata alla portata del problema.
Fu il D.L. 2 agosto 1916 n. 926 a rappresentare la vera svolta in tema di consumi e approvvigionamenti: il decreto conferiva al Ministero per l’Agricoltura l’Industria e il Commercio (Maic) ampi poteri in tema di approvvigionamenti, tra cui quello di acquistare merci all’estero, di requisire fissando i prezzi, di fissare i prezzi massimi di vendita. E creava la Commissione centrale degli approvvigionamenti e il Servizio temporaneo approvvigionamenti (Provital) che sostituiva l’UTAG.
Da quel momento, agli allarmati dispacci comunali che lamentavano le carenze alimentari e sollevavano timori sulle potenziali conseguenze sull’ordine pubblico, il governo iniziò ad opporre una serie di misure interventistiche, che andavano dall’imposizione di prezzi massimi più bassi di quelli di mercato (che finirono spesso per aggiungere al malcontento dei consumatori quello dei commercianti quando non per favorire fenomeni di mercato nero) a limitazioni nella vendita di determinati beni e prodotti, dagli obblighi di denuncia dei mezzi agricoli e del bestiame posseduto alle requisizioni, dai censimenti alimentari ai tesseramenti.
Nell’arco di pochi mesi le popolazioni, soprattutto rurali, si trovarono obbligate in un reticolo di norme, obblighi e divieti che fece loro percepire, forse per la prima volta in modo tanto evidente, la presenza dello Stato. Una scorsa anche rapida ai decreti luogotenenziali che regolarono via via la mobilitazione agraria riesce a dare una percezione immediata di quanto pervasiva fosse divenuta tale presenza: quasi nessun bene della produzione agricola, dal grano allo zucchero, dall’olio al formaggio, dal fieno alle pelli ovine e caprine, sfuggiva alle requisizioni. Lo stesso dicasi per i censimenti e gli obblighi di denuncia, a cui spesso si accompagnavano divieti di libero utilizzo dei beni; il consumo di molti beni fu sottoposto a limitazioni e razionamenti, così come il loro commercio (era il caso, ad esempio, del vino).
Ma fu ovviamente su di un genere primario come il pane che si appuntarono le maggiori misure di controllo: ancor prima dell’intervento in guerra del paese, il governo aveva imposto la produzione di un tipo unico di pane, con farina abburattata all’80%, poi all’85%: il pane nero, o “pane di guerra”, sgradevole al sapore e poco digeribile, sarebbe così entrato nell’immaginario collettivo come il simbolo delle difficoltà alimentari di un paese in guerra e di quell’austerità, che venne completata da numerosi altri decreti sempre più punitivi e restrittivi delle libertà personali, che andavano dalla limitazione dei consumi di lusso (carne e dolciumi tra tutti) a quella della frequentazione di locali pubblici.
Con la riorganizzazione generale seguita alla disfatta di Caporetto, anche la questione degli approvvigionamenti subì una svolta (non mancarono coloro che attribuirono la sconfitta alla depressione anche fisica di un esercito malnutrito: “una leggenda volgare e tendenziosa”, la avrebbe definita Giuffrida). A Vincenzo Giuffrida subentrò l’industriale Silvio Crespi, che riformò l’intero sistema annonario conferendo alla questione alimentare una svolta “moralizzatrice” e “patriottica”.
Il D.L. 14 febbraio 1918 n. 147 dava la stretta finale alla “mobilitazione agraria”. Il decreto si proponeva di dare incremento alla produzione agraria attraverso il controllo delle colture, del lavoro agricolo della distribuzione della forza lavoro e dei mezzi di lavoro. Di fatto, il decreto prevedeva, per tutta la durata della guerra e per l’anno successivo alla proclamazione della pace, il totale controllo, da parte del ministero dell’Agricoltura, della produzione agricola e della sua distribuzione. Gli esonerati per l’agricoltura dovevano indossare un bracciale di riconoscimento, di colore diverso in base al ruolo ricoperto; non mancarono, prefigurazione della politica autarchica, esperimenti di ricerca di surrogati di materie prime.
Non c’è da stupirsi del resto della nuova attenzione rivolta al problema alimentare, in un momento in cui il malcontento derivante dalla mancanza di pane rischiava di trovare sfogo in manifestazioni sovversive in grado di minare la resistenza del paese in vista della vittoria finale; proprio i problemi alimentari furono alla base dei moti insurrezionali che agitarono la città di Torino nell’estate del 1917, tramutandosi ben presto da agitazioni contro la mancanza di pane in proteste antimilitariste sedate dalle forze dell’ordine con un bilancio finale di quasi cinquanta morti e oltre duecento feriti.
Furono proprio le motivazioni di ordine pubblico, unitamente a quelle più strettamente legate al problema “umanitario”, a giustificare, in questo come in altri casi, una deriva interventista in abdicazione ai principi del liberismo economico, che spesso sarebbe stato difficile nel dopoguerra ricondurre nei binari della tradizione liberale/liberista.